(19 febbraio 2019, repubblica.it) Si è spento ieri a Milano Alessandro Mendini: aveva 87 anni spesi ancora in piena attività nello studio di via Sannio, da cui dirigeva, insieme al fratello Francesco, il famoso Atelier, da cui sono usciti i più celebri pezzi del nuovo design italiano.
A Milano Mendini era nato il 16 agosto 1931, da una famiglia dell’alta borghesia industriale che gli aveva trasmesso l’obbligo di far bene e l’amore per l’espressione artistica. Lo zio Antonio Boschi – ingegnere e autore di fortunati brevetti industriali – era, con la moglie Marieda un appassionato collezionista d’arte moderna: nel suo appartamento si consumò la sua infanzia culturale, all’ombra di quadri di Savinio, di De Chirico, di Sironi e di Carrà.
Una vita d’arte è stata anche quella praticata da Sandro – come si faceva chiamare – perché non confinata né al solo design né alla sola architettura ( si era laureato al Politecnico): ma si allargava alla grafica, alla pittura, alla scrittura, all’arte della performance e insomma a tutto ciò con cui poteva ibridare i linguaggi specialisti, da cui rifuggiva con naturale disappunto.
Questa poliedricità – che lui diceva scherzando di aver ereditato da Gio Ponti – ha segnato ogni aspetto della sua creatività: dalle riviste che ha diretto (Modo, poi Casabella e infine Domus), alle mostre che ha organizzato (memorabile nel 1980 la ‘Stanza Banale’), alle architetture (come il Museo della città di Groningen in Olanda, che gli ha dato fama anche di costruttore), agli innumerevoli “oggetti” di design, alcuni dei quali – come il cavatappi Anna G. per Alessi o la poltrona Proust – sono diventate icone di un design senza tempo.
Dagli anni 70 – quando irrompe sulla scena del radical design – Mendini è stato per decenni un agit prop di una controcultura del design, di cui ha contestato l’inaridimento in formule anchilosate e irrigidite, incapaci di raggiungere quella necessaria empatia che secondo doveva stabilirsi tra l’uomo le cose.
Per raggiungere l’intensità spirituale che attribuiva all’arte, aveva trasformato la pratica professionale in un’avventura culturale, facendo del suo studio milanese una fucina di giovani talenti, anzi un Atelier come amava definirlo. Insieme al fratello Francesco, ha disegnato e realizzato oggetti e architetture (in Italia, Olanda, in Germania, in Cina, in Corea dove negli ultimi anni veniva accolto come un rock star) che hanno cambiato la nostra maniera di considerare le barriere tra discipline.
E hanno cambiato anche l’attitudine delle fabbriche del design – da Alessi, Philips, Venini, Cartier, Kartell, Swatch, ecc. – che hanno accolto la sua attitudine sperimentale e manierista producendo un design poetico ed emozionale. Tra le sue ultime opere d’architettura va ricordata l’operazione orchestrata a Napoli per le Stazioni dell’Arte, una serie di fermate della nuova metropolitana che ha innescato il riscatto di aree degradate della città, grazie alla straordinaria collaborazione tra l’architetto e gli artisti.
di FULVIO IRACE
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